

Nelle tende del popolo delle renne - di Rebecca Singer
Alla ricerca degli sciamani del nord della Mongolia
18/05/2015
Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Sacred Hoop, Issue 86-2015. Traduzione italiana a cura dell'Associazione Culturale Il Cerchio Sciamanico
Ci accovacciammo su un picco delle montagne Altai, riparandoci da una tempesta che ci stava spazzando via, che aveva portato nevischio pungente e si presentava in modo scenico con tuoni e fulmini. I cavalli che avevano portato la nostra merce furono legati ad un albero ed i pastori dopo essersi radunati con i cavalli, stavano rannicchiati in mezzo a loro, mormorando agli animali nervosi delle parole tranquillizzanti.
Il mio compagno Wil ed io eravamo diretti verso i Dukha, il popolo delle renne che i Mongoli chiamano Tsaatan, attraverso le aspre montagne e le foreste, attraverso i fiumi ed oltre paesaggi ripidi e terreni che questi cavalli mongoli stavano attraversando senza alcuno sforzo.
Era un trasferimento di dieci-dodici ore fino al campo estivo dei Dukha, dove speravo di trovarmi faccia a faccia con una donna sciamana, una diretta discendente dei primi sciamani sulla terra. Sarebbe stato per me il coronamento di un sogno. Ora il nevischio si stava trasformando in neve, ed il vento era in ripresa.
Era la prima volta che avessi mai visto un fulmine durante una nevicata. Avevo freddo e la schiena mi faceva male. Le nostre selle erano di tipo russo, le dimensioni come di un piccolo cuscino, costituite esclusivamente da pochi strati di imbottitura rivestiti in pelle. Le staffe erano state montate alte e fui contenta che avessimo portato dagli Stati Uniti le nostre cinghie per le staffe che potevano essere allungate per adattarsi alla lunghezza delle nostre gambe, ma la parte posteriore della sella aveva un anello di metallo che fungeva da schienale ed il mio mi colpiva di poco sopra al coccige. Sentivo lo stillicidio di dolorose vesciche dovute al continuo sfregamento.
Wil sembrava pallido e malato, aveva vertigini ed era indebolito dal freddo e dalla mancanza di proteine. Anche se grata per il fatto che avevamo vari strati di materiali adatti da indossare, mi chiedevo se non stessimo per morire lì.
Il cielo plumbeo riversò il suo carico di congelamento su di noi, il nevischio flagellava le nostre povere facce ed i tuoni ci assordavano pochi istanti dopo i lampi.
Che cosa ci sarebbe successo se fossimo stati colpiti da un fulmine? Eravamo troppo in alto, vulnerabili, senza rifugio. Incominciai a pregare. Per la prima volta in molti anni, mi sentii davvero in preda alla paura, il mio cuore batteva all'impazzata.
Ma nel giro di pochi minuti la tempesta si era spostata ed i pastori segnalarono che eravamo pronti per montare sui cavalli e continuare. Cavalcando in mezzo ad un nevischio soffice, eravamo tutti contenti di spostarci da lì.
Nella parte superiore della cresta della montagna la vista si aprì, rivelando grandi montagne coperte di neve ed una verde vallata sottostante. Ora i torrenti impetuosi erano dietro di noi, come lo erano le alte foreste infestate da insetti neri che mi ricordavano delle scene da Dottor Zivago.
Proseguimmo ed il ripido sentiero fangoso giù per la montagna iniziò ad essere difficile da percorrere. Di tanto in tanto dovetti smontare da cavallo e camminare con attenzione al fianco del mio cavallo. Sotto di noi riuscivo a malapena a vedere nel fondovalle i puntini delle yurte dei Dukha, le loro abitazioni simili a dei tipì, che brillavano nel sole del tramonto. Mi sentii sollevata al pensiero che saremmo arrivati prima del buio. Ma il sentiero fino al campo dei Tsataan stava lentamente scomparendo.
Fu solo ore più tardi, molto dopo il tramonto, che fummo trascinati dai cavalli in una yurta nota come “Hotel” e posizionata sul terreno umido.Eravamo bagnati fradici; tutto era inzuppato, il nostro abbigliamento, la nostra attrezzatura, tutto.
Ed avevamo un gran freddo. Il pavimento della yurta era irregolare. E freddo.
I pastori entrarono subito portando della legna ed accesero il fuoco nella piccola stufa a legna arrugginita che si trovava al centro della yurta. I pastori incominciarono ad appendere le nostre cose ed i nostri vestiti su strisce di stoffa che attraversavano all'interno la yurta ed arrivavano fino al soffitto tappezzato da una rete bagnata con su tutte le cose.
Wil ed io ci sdraiammo per terra, esausti. Due membri della tribù ci portarono del pane caldo e del formaggio e ci vollero tutte le nostre forze per metterci a sedere e per ringraziarli e poi uno sforzo ancora maggiore per masticare. Le donne tornarono con latte caldo di renna per accompagnare il pane ed il formaggio ed i nostri corpi lentamente si scongelarono, il cibo e le bevande ci rinvigorirono a sufficienza per trovare le forze di raggiungere dei vestiti asciutti che erano stati avvolti in sacchetti di immondizia e si trovavano in profondità all'interno di una delle sacche. Chiusa l'entrata della yurta cambiammo e disponemmo sopra al terreno bagnato dei materassini per dormire che erano asciutti e poi disponemmo dei caldi sacchi a pelo sopra i materassini.
Ero consapevole del sanguinamento delle vesciche sulla schiena, nella parte bassa della mia colonna vertebrale, ma ero troppo stanca per fare qualsiasi cosa per sistemarle, ero sdraiata sul fianco con gli occhi chiusi, immaginando i cavalli che tornavano indietro lassù per le montagne.
Ora Wil non era più sdraiato, stava camminando e capii che era veramente malato, ammalato ed arrabbiato - uno stato d'animo raro per Wil che non se la prendeva mai. Sapevo che era arrabbiato per la mancanza di aiuto lungo la strada nelle montagne ed arrabbiato per essersi ammalato.
Lo feci sdraiare e gli diedi ancora un po' di latte di renna e lui finalmente si rassegnò come un animale esausto che ha caricato più e più volte contro un bersaglio immobile.
Lentamente, oltre la confusione per la fatica, il freddo ed il dolore, mi resi conto che molte persone erano andate e venute per farci stare più al caldo e per darci del cibo ed erano tutte persone che non avevano quasi nulla. La gente ci aveva accolto, i bambini facevano capolino e ridacchiavano.
I pastori avevano legato i cavalli ed avevano appese le nostre cose sopra al fuoco.
Mentre mi riscaldavo gradualmente, incominciai a mettere a fuoco: finalmente mi trovavo qui. Il nostro viaggio a dorso di cavallo di dodici ore era finito ed eravamo arrivati qui - qui, finalmente dopo tutti gli anni di nostalgia, di desiderio di incontrare nella realtà una donna sciamana discendente dai primi sciamani.
Stavo seduta in una yurta in mezzo a loro. Sopraffatta dallo stupore, dalla gratitudine e dalla stanchezza, mi sdraiai di nuovo e mi addormentai subito, troppo stanca per sognare.
La vita nel campo delle renne
La mattina successiva, uscendo tra le yurte e le renne nella luce che precede l'alba, mi feci orientare dal debole bagliore che era la promessa del sole che stava per sorgere. Tutti dormivano eccetto le renne giovani che erano state legate durante la notte vicino al campo, in modo che i lupi non le cacciassero. Guardai la taiga, il torrente, le colline circostanti e le yurte, mi muovevo in silenzio, in modo che i cani non abbaiassero contro di me, camminai fino al torrente ed immersi una mano per testare l'acqua; era fredda, molto fredda. Anche se era giugno, c'era una spolverata di neve sulle colline e provai un brivido in faccia mentre tornavo alla mia yurta.
Prima di venire qui, avevo imparato che questa tribù aveva vissuto nella Mongolia del nord fin dal 1947 dal momento della chiusura del confine russo-mongolo. Come quella di tanti cacciatori e raccoglitori, la cultura e la stessa esistenza di queste persone nomadi erano minacciate. Anche se le riforme democratiche del 1990 avevano confermato alla tribù ancora una volta la proprietà delle loro mandrie, le mandrie si erano terribilmente esaurite, dal momento che le persone sono costrette a vendere o barattare gli animali che sono la loro unica moneta reale.
Ora potevo vedere di prima mano come era per loro la vita quotidiana. Era una serie di intrecci di faccende quotidiane necessarie alla pura sopravvivenza: prendere l'acqua, far bollire l'acqua, cuocere il pane, tenere le yurte pulite, trasportare la legna, dividere la legna, lasciare libere le renne al pascolo, intagliare le corna di renna perse durante il periodo di muta per i turisti in visita, rammendare i vestiti, radunare le renne, mungere le renne …
Come mi sedetti pensando a tutto ciò, Saya, una giovane donna mongola, entrò nella nostra yurta. Saya era stata in America, dove aveva imparato l'inglese. Alcuni anni prima, durante una visita ai Dukha, mentre lavorava con loro attraverso un'organizzazione non governativa, si era innamorata ed aveva sposato uno dei giovani uomini della tribù. Ora viveva in mezzo a loro, seguendo le tradizioni delle donne Dukha ed aiutava come interprete per i turisti in visita.
“Com' è andata la notte?” Chiese Saya. “Ti è piaciuto l'hotel yurta?”
“Bene. Noi stiamo bene”, risposi.
Wil stava ancora dormendo ed io ero felice notando che la sua pelle sembrava meno “di gesso”, più viva.
“Spero di non essere scortese” dissi, “ma mi piacerebbe molto, se possibile parlare con la sciamana in qualche momento della giornata di oggi. Saresti così gentile da chiederle se vuole parlare con me?”
Saya abbassò lo sguardo a terra e masticò un pezzo di pane.
La sua struttura corporea robusta e dura, vestita con una felpa occidentale e dei pantaloni, la faceva sembrare un'orsa. “La sciamana è timida, a lei non piace parlare con gli sconosciuti. Scusa. So che sei venuta da un lungo cammino, ma questo è il modo in cui è fatta.” “Capisco, ma penso che la sciamana potrebbe essere ben disposta, ti dispiacerebbe chiederglielo più tardi, quando lei ha un attimo? È possibile chiederglielo?”
“Chiederò. Ma non aspettarti molto. Vado a prenderti del latte di renna ed abbastanza anche per il tuo compagno. Siamo contenti che siate venuti e più tardi potrete vedere le sculture che gli uomini realizzano con le corna delle renne. Ci sarà probabilmente qualcosa che vi piacerebbe acquistare.”
Saya era dai modi bruschi, l'espressione nei suoi occhi era quasi austera. Forse l'arrivo di sempre più turisti in queste zone remote era motivo di stress. Era ovvio che l' “Hotel” era stata un'impresa per far soldi ed ero sicura che l'hotel fosse stata un'idea di Saya. Essendo l'unica che aveva collegato il mondo dei Dukha con il mondo esterno, la giovane mongola possedeva una conoscenza che nessun altro nella tribù avrebbe potuto immaginare.
I turisti avrebbero voluto alloggiare in una yurta, avrebbero voluto un fuoco e del pane caldo. Quindi avrebbero dato loro queste cose e li avrebbero fatti pagare. Chiamatelo un “albergo” e - voilà – ecco i soldi!
Quando il sole sorse, la vita del campo rivelò i suoi ritmi del mattino; furono accesi i fuochi nelle stufe a legna, le renne furono lasciate libere di pascolare. Le donne uscirono dalle yurte e fecero le offerte con latte di renna alle quattro direzioni, i cani abbaiavano e furono gettati loro degli avanzi di cibo. Poi gli uomini partirono verso la montagna per raccogliere la legna. Era una giornata calda e molte delle renne si fermarono nel campo, girando tra le yurte per evitare le mosche.
Camminai fino ad una distanza rispettosa per sollevare la gonna, accucciarmi e fare pipì. Con mio gran sgomento, un gruppo di renne iniziò a correre a tutta velocità verso di me. Pensai che mi avrebbero calpestata e, mentre cadevo all'indietro, iniziai a ridere al pensiero del titolo: “Donna uccisa mentre faceva pipì in un campo di renne”.
Le renne fecero un brusco arresto ed aspettarono che mi tirassi in piedi e me ne andassi. Era il sale nelle urine a cui erano interessate.
Le successive esperienze nel fare pipì andarono più lisce, come le vedevo avvicinarsi, iniziavo a parlare loro “Aspettate lì ragazze. Le urine stanno giusto per arrivare, solo tenete su le vostre corna”.
L'incontro con la sciamana
Saya si presentò nella nostra yurta poche ore più tardi mentre stavamo sgranocchiando alcune mandorle e dei frutti essiccati che avevamo portato con noi. Wil aveva fatto parecchie escursioni lungo il fiume, esplorando gli immediati dintorni vicino a noi ed aveva rimesso un po' in ordine il caos che c'era in “Hotel.”
Evidentemente si sentiva meglio. Poi Saya sollevò i lembi della tenda e mi parlò.
“La sciamana Saintsetseg dice che ti riceverà. Dice che ti ha visto arrivare ed è felice di parlare con te. Se vuoi farò da interprete, se no puoi andare da sola.”
“Per favore vieni. Gradirei il tuo aiuto in questo primo incontro” dissi. “Quando?”
“Ora”.
Ed uscimmo, Saya davanti a me.
Entrambe attraversammo il campo, delle erbe minuscole ed erbacce si alternavano a zone di terra nuda e polvere. C'erano escrementi di renne ovunque e come fummo sul sentiero corretto, le donne anziane della tribù ci guardavano mentre ci avvicinavamo alla yurta della sciamana che era un po' più lontano dalle altre.
Saya sollevò la tenda che faceva da porta ed entrammo. C'era luce appena sufficiente per vedere. Un odore di terra e di ginepro pungente riempiva l'aria. Questo era l'odore del mondo degli sciamani. Lo riconobbi ed improvvisamente mi sentii un po' disorientata, come fuori dallo spazio e dal tempo, con un sensazione di essere contemporaneamente sia dentro che fuori dal corpo. Saintsetseg sedeva su una panca di legno e si prendeva cura del fuoco. Era vestita con il suo “deel” tradizionale, una vestaglia di seta spessa, che serviva per ripararsi sia dal caldo che dal freddo.
Il suo deel era di un azzurro brillante, lo stesso colore dei “khadags”, gli scampoli di seta legati agli “ovoos”, dei cumuli di pietre posti come offerte in onore agli spiriti del cielo. Dal momento che il cielo veniva onorato in tutta la regione, si potevano trovare degli ovoos quasi su tutte le colline e quando se ne incontrava uno si doveva camminare attorno per tre volte girando in senso orario e rendendo grazie.
In contrasto con l'azzurro del suo deel, gli occhi di Saintsetseg erano piccoli, scuri e caldi, di molto sprofondati nel suo viso rotondo.
La sciamana fece cenno a Saya di sedere alla sua sinistra ed a me indicò di sedermi di fronte. Ebbi la sensazione che ci fossero molte più persone nella yurta che solo noi tre. L'energia della sciamana era molto trattenuta al suo interno, come se la sua pancia contenesse un fuoco personale fatto da carboni ardenti.
Come aveva detto Saya, era davvero timida. Mi offrì del pane e delle tazze di latte di renna. Ci sedemmo in silenzio per qualche battito del cuore. Poi ruppi il silenzio.
“Per favore, dille che sono grata che mi abbia ricevuto”.
Saya tradusse e poi rispose.
“Saintsetseg sa che sei una sciamana ed è felice di conoscerti. Ti ha visto arrivare dalla montagna. Sei la benvenuta qui.”
Presi con cura per un piccolo cristallo che avevo portato con me durante tutto il viaggio attraverso l'oceano, attraverso le montagne e le foreste, fino a questo campo.
“Per favore offrile questo”. Poi trassi dal mio cappotto una piccola borsa di pelle piena di salvia. “E questo.”
Ed infine un sacchetto di tabacco sfuso.
“E questo, dicendole che è il mio saluto.”
Saintsetseg annuì e fece un suono basso: hmmmmm. Considerò i doni con calma, esaminandoli uno per uno, annuendo con la testa in su ed in giù.
Sempre senza dire nulla, si girò da un lato e prese con cura una scultura che raffigurava un pesce e che era posta alla fine di una striscia di cuoio e me la offrì. Era un salmone, ben impresso con splendidi dettagli. Poi la sciamana raccolse un sacchetto di pelle di antilope e mi offrì una manciata di fiori sminuzzati.
Le sue mani erano spesse e piene di vesciche, testimoni di una vita di duro lavoro. Anche se era una donna piccola e robusta, Saintsetseg aveva una presenza piena di potere ed era molto presente nel suo corpo. Aveva una lunga treccia nera appoggiata sulla spalla come una corda che intrecciava storie.
Dopo che ci fummo scambiate i regali, ci guardammo semplicemente l'un l'altra, attraverso il tempo, attraverso i continenti, oltre lo spazio, attraverso gli eoni.
Generazioni che passano. Silenzio. Le donne stavano sedute così da sempre, prima del tempo, prima del corpo.
Stavamo sedute. Gli odori ci circondavano e ci tenevano in qualche altro mondo, fuori dal tempo. La luce ci tesseva assieme attraverso il tempo e lo spazio. Mi sentivo a casa.
Poi arrivarono le sue dolci parole. Saya tradusse “Saintsetseg dice che può sentire il tuo cuore. E' felice che tu sia qui, dice che poi, magari, potreste scambiarvi delle letture”. “Ne sarei onorata”, risposi. “Per favore chiedile se le piace il cioccolato”. Un ampio sorriso trasformò i connotati della sciamana in gioia infantile, con gli occhi spalancati a rivelarne sia la profondità sia la luce.
"Per favore dille che è la benvenuta nell' “Hotel” in qualsiasi momento, c'è lì anche il mio compagno ed anche lui sarebbe felice di incontrarla. Per favore dille di portare chiunque voglia”.
Saintsetseg ascoltò ed annuì. Saya fece un gesto verso la porta, aprimmo il lembo della porta e fummo accolti da un bel sole e dalla vita attiva del campo.
Mi diressi verso il torrente e cominciai a vagare risalendolo. Qualcosa nella mia anima era scivolato al suo posto, una parte essenziale. Avevo la sensazione che se fossi morta quel giorno, mi sarebbe andato bene, mi sentivo completa. Non che volessi morire, ma era una sensazione di pienezza, come la chiusura di un cerchio, quello che avevo progettato da bambina, ma che non si era ancora completato, come un ingranaggio che va a posto, una frase punteggiata da un punto, un'espirazione di un'inspirazione iniziata molti anni prima.
In seguito, Saintsetseg ed io ci facemmo diverse visite, soprattutto comunicando attraverso i gesti, con nessun traduttore presente. Parlammo di come viaggiavamo, dei nostri tamburi, dei nostri abiti da sciamano, delle nostre erbe. Parlammo del cuore di uno sciamano, della morte del figlio di Saintsetseg, di come fosse diventata una sciamana e di quanto amasse sua figlia e di come le stesse insegnando il suo sciamanesimo. Facemmo delle risatine davanti al cioccolato ed alla marmellata russa sul pane. Cantammo; Saintsetseg cercò di insegnarmi delle parole in Tuva - la sua lingua. Canticchiammo con la bocca chiusa, condividemmo e ci scambiammo delle letture. E Saintsetseg suonò la sua “Amun Khuur” (uno strumento tipo arpa dello sciamano) e mi disse quello che lo strumento aveva da dirci.
Discorsi sui tempi che cambiano
Una mattina, Saintsetseg entrò nell' “Hotel” con due donne anziane della tribù, indicandomi che una di loro aveva bisogno di un massaggio.
Questa donna sembrava che avesse molto più di 80 anni, anche se in realtà ne aveva solo 65. Non c'era nessuno a prendersi cura dei suoi denti e molti erano caduti,si era ferita anni prima mentre cavalcava una renna col risultato che la sua gamba si era consolidata con un angolo strano. La schiena era piegata per il freddo e per l'età.
Non appena la donna lentamente si sdraiò, Saya entrò nella yurta per guardare. La vecchia accolse con favore il massaggio che le feci ed emetteva suoni di contentezza. Saintsetseg mormorò qualcosa sottovoce alla sua amica anziana e la donna le rispose qualcosa che Saya tradusse. “Dice che lei può sentire come si stia sciogliendo la neve nel suo fianco”. La donna anziana cominciò a russare e Saintsetseg rise piano, facendo un segno che significava “bene!”. Ognuna si sedette stando quieta, ascoltando il respiro della donna anziana mescolato con i suoni delle renne all'esterno e dei cavalli che mangiucchiavano l'erba nelle vicinanze.
In seguito, con l'aiuto di Saya, la sciamana ed io parlammo delle esigenze crescenti della tribù. Parlammo dell'assalto dei turisti che chiedevano cerimonie senza sapere che ci siano dei giorni buoni per gli sciamani per celebrare le cerimonie ed altri giorni in cui i loro spiriti glielo avrebbero vietato.
Dal momento in cui il denaro era stato introdotto nella tribù, e dal momento che erano così poveri, gli sciamani si erano sentiti in dovere di offrire qualcosa, anche durante giorni non adeguati, e, non volendo diventare ammalati, o far arrabbiare gli spiriti, avevano iniziato ad eseguire cerimonie che erano in realtà solo delle prestazioni sceniche. I turisti sembravano sufficientemente soddisfatti con questi spettacoli, allora poi Saintsetseg indossò una sua vestaglia, scelse un tamburo specifico che non aveva mai utilizzato durante una vera cerimonia ed inscenò uno spettacolino.
Durante il nostro ultimo giorno promisi di inviare a Saintsetseg un cappotto veramente caldo. Parlammo ulteriormente di ciò che stesse accadendo agli sciamani della tribù e di come Saintsetseg stesse passando la sua conoscenza a sua figlia. Mi disse anche di come uno dei loro sciamani più potenti stesse morendo dopo aver celebrato una cerimonia per un bambino autistico in un giorno in cui non avrebbe dovuto farlo.
Molti anni prima il popolo Tsataan era entrato in contatto con il mondo occidentale ed avvertii fortemente che, come conseguenza di ciò, la tribù sarebbe stata vicina alla sua fine.
Anche se le intenzioni erano buone, un tale sconvolgimento di un popolo nomade senza un piano generale, aveva portato al caos. Ora c'erano pezzi di plastica sparsi sul territorio lasciati da turisti ben intenzionati; erano stati lasciati a casaccio degli antibiotici perché loro li prendessero ed i bambini spesso venivano nelle yurte a mendicare, un comportamento appreso causato dal contatto con i turisti.
Saintsetseg mi disse che molti dei Tsataan ora trascorrevano l'inverno in una piccola città anziché nei campi tradizionali e che si stavano indebolendo i legami all'interno della tribù.
Non erano d'accordo anche sull'offrire cerimonie per i turisti, alcuni erano disposti a farlo per i soldi, ma altri della tribù erano contrari. Saintsetseg sottolineò, che, dopo tutto, uno sciamano stava morendo per avere celebrato delle cerimonie nei giorni in cui i suoi spiriti non erano d'accordo. Sentivo che Wil e io stavamo assistendo l'ultima fase della vita della tribù che ora contava in totale solo 300 famiglie.
Prima di partire promettemmo di tornare e di comprare molte sculture, di portarle negli Stati Uniti, di venderle e di dare il denaro alla tribù. Decidemmo di tornare dopo un anno e di fermarci a vivere con i Dukha per un mese, di portare materiale per una yurta che poi avremmo lasciato alla tribù.
Come Wil ed io rimontammo in sella sui nostri cavalli per il viaggio a ritroso sulle montagne, mi fermai un attimo e guardai Saintsetseg. “Vedo il tuo cuore”, le dissi facendo un gesto con le mani. Saintsetseg annuì concordando. Mi fece un gesto con le mani “Vedo il tuo cuore”.
Sapevo che quando fossi tornata, sarebbe stato un vero ritorno a casa.
Note sull'autrice
Rebecca Singer si è specializzata in metodi antichi di guarigione, è stata formata da sciamani e guaritori dei Lakota del Sud Dakota, da tribù indigene delle foreste pluviali del Costa Rica e dai Dukha nelle montagne del nord della Mongolia, tutti loro hanno tramandato a lei la loro saggezza nelle guarigioni. Rebecca ha trattato migliaia di persone ed ha viaggiato a livello internazionale, offrendo cerimonie, sessioni di guarigione e seminari.
Attualmente vive nello stato di New York, dove sta lavorando al suo libro di memorie. Rebecca e Wil si sono stati recentemente sposati.
www.shamanicenergy.com
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